Google
 

lunedì 8 novembre 2010

Mario Giacomelli "I piccoli inediti" - 14 novembre / 14 dicembre 2010


Mario Giacomelli "I piccoli inediti"
dieci versi per dieci fotografie


a cura di Paola Casagrande e Giovanni Ferri
courtesy Simone Giacomelli

GALLERIA PORTFOLIO fotografia
via Fagnani, 3 - Senigallia (AN) - tel. 071/64721
14 novembre / 14 dicembre 2010
ore 18 / 20 (esclusa la domenica)
inaugurazione domenica 14 novembre ore 18
con la presentazione di Alfio Albani

La Galleria Portfolio di Senigallia presenta nel suo spazio di Via Fagnani, 3 un'inedita selezione di dieci frammenti sia fotografici che poetici del maestro Mario Giacomelli.
Si tratta di un percorso costruito attraverso le parole, che ci invitano alle immagini cariche di memoria e contrasti, conducendoci in una dimensione principalmente fatta di bianchi e di neri che diventano fatalmente volti, corpi, paesaggi.
Sono scatti che testimoniano ancora una volta lo sguardo complice e curioso, di un uomo legato profondamente alla sua terra, alle sue strade alle sue storie e a quella varia e vera umanità, che ne condivide la luce oppure il rumore, che dal mare arriva fino alle colline perennemente ritratte.
La mostra curata da Paola Casagrande e Giovanni Ferri è stata resa possibile dalla cortese amicizia di Simone Giacomelli, il quale ha permesso di rovistare fra ritagli, provini e scampoli di carta fotografica impressionati personalmente dall'artista senigalliese dagli anni cinquanta agli anni ottanta e rimasti perlopiù nel silenzio di scatole buie.
Un atto dovuto, dunque, come sentita e originale commemorazione a dieci anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel novembre del duemila.




L'articolo di Emanuela Audisio su "Repubblica" di domenica 7 novembre 2010:



È stato il fotografo dei "pretini" e dei gabbiani, ma non solo. Lo interessava la perdita, la vita dal basso: la campagna invasa dai trattori, le case crollate dei contadini, i vecchi negli ospizi senza più denti in bocca. Dieci anni fa se ne andava, e ora la sua Senigallia lo ricorda con una mostra, "Piccoli inediti". Sono alcuni versi e i primi clic trovati dal figlio Simone nella soffitta di casa. Non scarti: "Papà non pubblicava quello che amava"

SENIGALLIA

Se ne andò alle tre di notte, dieci anni fa. Il 25 novembre, di un anno che non voleva nominare. Lo avevano operato d’urgenza a gennaio, i medici non avevano dato speranze. Tumore. Simone, il figlio, ricorda: «Papà uscì dalla rianimazione e mi chiese di portare la mia macchina fotografica. La mia? Sì, non voleva la sua. Scese dal letto, me la impostò, e me la restituì, dicendo di non toccare niente, neanche il vuoto. Poi si sistemò accanto alla finestra e mi disse: scatta». Così è nato Questo ricordo lo vorrei raccontare. Vorrei, appunto, non voglio. L’umiltà dei desideri, di chi ringrazia per il niente, una fetta di ciambellone da dividere per cena. «Quello che ho avuto di bello dalla vita sono la povertà e le botte che mi ha dato mia madre». Già, lividi veri. Anche se la madre gli confessò che poi andava a piangere al gabinetto. Mario Giacomelli se non aveva mani che accarezzassero il suo volto, aveva occhi che sapevano raccontare. E riconoscere la guerra in tempi di pace. I segni, le ferite, le cicatrici della campagna e del mondo. La vita dal basso, schiacciata, senza colore, senza cielo.
Ora la sua città lo ricorda con una mostra, I piccoli inediti. Dieci versi in dieci fotografie, dal 14 novembre al 14 dicembre, alla Galleria Portfolio di Senigallia, a cura di Paola Casagrande e Giovanni Ferri, con presentazione di Alfio Albani. Non solo i primi clic, ma anche le parole. Perché a Giacomelli non interessava la foto singola, ma la serie, il racconto. «Ciò che conta è quello che nasce nella mia mente». Non era scanzonato come Fellini, era più estremo, non ne divideva il ritmo da Vitelloni, anche se le onde dell’Adriatico erano le stesse, piuttosto come Pasolini si lamentava di una perdita. Anche se le lucciole in collina resistevano. «La campagna è cambiata. È diversa, adesso è una terra piatta, passa una macchina che taglia, miete, macina, fa tutto. Non c’è più fantasia. Arrivano questi bestioni meccanici e non c’è più gioia in chi lavora, in nessuno», dice a Giorgio G. Neri. E lui fotografa la scomparsa, le sue paure, le sue ossessioni, mascherandole dietro le serie.
Questi inediti, questi provini, scelti tra un centinaio, erano negli scatoloni nella soffitta di casa, dove lui stampava. Non robaccia, non scarti, perché come dice Simone: «Papà non pubblicava quello che amava, lo teneva per sé, aveva paura di non essere capito, nel ’63 voleva addirittura smettere, era rabbioso con il suo lavoro, di notte rompeva, strappava le foto, le buttava in un cesto. Io da bambino gli facevo da modello, anzi facevo l’ombra, una figura in movimento, ma non riuscivo a stare serio, e lui si arrabbiava. Finché nell’83 esce il libro Il Gabbiano Jonathan Livingston, e lui mi coinvolge, mi chiede: cosa ne pensi? Inizia una ricerca sui gabbiani che quasi gli costa la vita, cade nella discarica, in un fosso di spurgo e grazie al cavalletto, tenuto sempre allungato, riesce a salvarsi, ma la puzza gli resterà addosso per una settimana. La poesia era la sua spalla creativa, odiava tutto quello che è didascalia, la Cavallina Storna con l’immagine del cavallo che passa, aveva una menta astratta, vedeva le macchie, i segni».
Li vede da subito: il padre muore che lui ha nove anni, la madre Libera lavora come lavandaia all’ospizio in cambio di un piatto di minestra, la sorella più piccola viene data in affidamento per un anno perché non ci sono soldi. Mario inizia a disegnare sui tronchi degli alberi. Non cuori, ma croci. A tredici anni diventa tipografo. Segni, ancora una volta: le macchie sui muri, i fili di ferro. «Meravigliosi». Nel ’53 acquista una Bencini Comet 5 e scatta due rullini al mare d’inverno. È la vigilia di Natale. Una ciabatta rotta, una stella di mare, la schiuma delle onde. Resti, per noi. Per lui: L’approdo. Nel ’57 gli pagano (in anticipo) un servizio su Lourdes. Parte, arriva, se ne va, sotto la pioggia. «Mi vergogno, non ce la faccio». Ridà indietro i soldi, anche quelli del viaggio. «C’era un bambino in carrozzella, con le gambe intrecciate, urlava come un gorilla». Lo rimproverano: ma come, hai ritratto i vecchi rotti e sdentati all’ospizio, nella sala d’attesa per la morte. E lui: «Sì, ma quelli avevano vissuto, questi invece no».
Giacomelli non è uno spettatore. Va al mattatoio, vede i maialini piangere, e scappa via. Va all’ospizio per tre anni, e non riesce più a mangiare. Ma dopo uscirà Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Va in seminario, sempre per tre anni, curioso dei pretini, «figli di contadini», e butta via tutto. Però a Lourdes torna, con la moglie, per esigenze private, e stavolta fotografa. Spiega Simone: «Nel ’59 era nato Neris, mio fratello, che a pochi mesi dalla nascita ingoia una spilla da balia, ha un principio di soffocamento, con un deficit che lo lascia senza parole». Giacomelli vuole realizzare una serie sui disabili, I miei fratelli, ma non lo lasciano fare. Un anno prima si è rotto una gamba, e a causa del gesso, si è dato alla composizione, a quelle nature morte che giudica male. Nel ’65 inizia a frequentare una famiglia di contadini, ogni domenica mattina d’inverno fotografa sempre la stessa casa fino a quando nel ’95 la casa crolla. Per lui sono Le ragioni del tempo. Nel ’68 conosce Burri che gli piace molto: «Fossi un pittore mi piacerebbe essere lui». Tagli, vuoti, crudezza.
Dieci anni dopo Giacomelli è ancora vivo. Usato, conosciuto, imitato. Dice il pittore Leonardo Cemak: «Ha dato a tutti l’illusione che fosse semplice guardare il paesaggio, ma lo era per il suo sguardo». Patrizia Molinari, artista: «Ha visto l’incommensurabile in un campo arato, nel volo di un gabbiano, nel viso di un folle in manicomio». Mirko Procaccini, grapich-designer: «Con una macchina fotografica scalcinata ha dato forza e visibilità a un panorama invisibile». Come spiega Ferdinando Scianna ai suoi allievi: «Giacomelli insegna che anche una tipografia di provincia può essere vissuta come una nave di pirati. Ognuno trovi il suo modo». Ricorda Simone: «Mi diceva sempre: quando sarai grande capirai. Non accettava l’ambiente che cambiava, la terra che si disfaceva, la violenza dell’uomo sulla natura. Chiedeva: perché? Ora che ho un figlio di sette anni capisco. Papà non mi ha lasciato foto, ma pezzi di vita, con un vocabolario». Una altro modo per dire: guarda le suture, il male che c’è sotto, non avere paura di abbassare gli occhi. E noi infatti oggi li alziamo.

EMANUELA AUDISIO

Nessun commento:

Posta un commento