E' apparso ieri, su 60019.it, questo interessante articolo di Massimo Renzi, che riporto.
Buona lettura!
“...Era la vigilia di Natale del 1953 e mi ero appena regalato una Comet... Sono andato in spiaggia per provarla... Nel libretto delle istruzioni c’era scritto: tenere saldamente la fotocamera, inquadrare e scattare evitando di muoverla. Ma se io voglio far vedere quell’oggetto che fluttua, e il moto impetuoso delle onde, non posso tener ferma la macchina fotografica...”.
Così si racconta sia nata “L’approdo”, quella che, tra mito e realtà, è passata alla storia come la prima fotografia di Mario Giacomelli.
Non facciamoci ingannare dall’apparente ingenuità del gesto e dalle semplici parole di Giacomelli: egli come pochi sapeva esprimere concetti complessi con una dialettica efficace, genuina e alla portata di tutti. In queste poche righe di racconto sono racchiuse (e risolte, per quanto lo riguarda) alcune delle tematiche che animano i dibattiti a partire dai tempi di Niepce e Daguerre.
Il primo interrogativo che potremmo porci è: Come nascono le immagini?
In questo caso abbiamo uno stato emotivo indotto da una percezione intimistica e interiorizzata della realtà, ovvero una situazione percepita in virtù di uno status emotivo propizio.
Passiamo mille volte davanti a un oggetto e non ci suscita emozione alcuna, poi all’improvviso la folgorazione: dobbiamo fotografarlo! L’oggetto c’era già, era lì da sempre, lo abbiamo sempre visto ma solo ora – e mai prima d’ora – abbiamo scorto in esso “qualcosa che ci comunica qualcosa”.
Sono fermamente convinto che la realtà possa offrire al fotografo dotato di intelligenza e sensibilità l’equivalente oggettivo di ogni stato emotivo. In altre parole, c’è sempre nella realtà qualcosa da fotografare che rappresenta, aldilà di facili e scontati simbolismi, ciò che abbiamo nel nostro “io” più profondo. La realtà ci permette di fotografare la parte più vera di noi stessi, se abbiamo la capacità di farlo.
Non necessariamente in contrasto con quest’approccio intimistico, altri fotografi operano in un contesto di progettualità per la realizzazione delle loro immagini. C’è un’idea portante che fa da filo conduttore, un concetto da esprimere per immagini, e il fotografo si mette alla ricerca di quella parte infinitesimale di realtà che è funzionale al suo progetto, non senza incorrere, di tanto in tanto, in qualche “folgorazione”.
(...)
Tornando a “L’approdo”, abbiamo da un lato uno scenario reale, rielaborato dal vissuto e dal subconscio, elevato a poesia tragica dell’esistenza (caratteristica dell’intera opera giacomelliana), e dall’altro uno strumento considerato tanto più perfetto quanto più capace di riprodurre fedelmente la realtà. Tanta perfezione rende paradossalmente tale strumento inadeguato, se non si trova il modo di “piegarlo” alle proprie esigenze espressive. Qui entra in gioco la tecnica, che bisogna conoscere appieno per poter decidere come e in che misura impiegarla e distorcerla, se necessario, immaginandone a priori gli effetti. Chiudere il diaframma, allungare il tempo d’esposizione, seguire il movimento dell’oggetto per registrarne la dinamicità sulla pellicola: non si è trattato forse del primo esempio di panning della fotografia moderna, ma è verosimile immaginare che dietro l’apparente spensierata gestualità di quello scatto ci sia stata una preparazione attenta e rigorosa; non a caso il “maestro” di Giacomelli, in quei suoi primi passi nella fotografia, è stato un certo Giuseppe Cavalli.
A Giacomelli piaceva affermare che di tecnica non ne capiva nulla, facendosi scherno della sua ingombrante e vecchia Comet tenuta insieme dal nastro adesivo; chi lo ha conosciuto sa bene che era vero il contrario: conosceva alla perfezione la sua macchina e sapeva come usarla. Se così non fosse stato non avremmo mai goduto di quei bianchi bruciati “per togliere ciò che è inutile e troppo eloquente”, e di quei neri aperti “per lasciare spazio all’immaginazione”, di quei solchi sui volti e sulla terra, di quei tagli impossibili.
Quell’apparente disconoscimento della tecnica era il suo modo “soft” di polemizzare con quanti riducevano –ieri come oggi- la fotografia a una pratica esclusivamente tecnico-figurativa finalizzata alla ricerca del “bello” e del “tecnicamente perfetto”.
Ancora oggi schiere di fotografi si fronteggiano esibendo costosissimi obiettivi, sfoggiando macchine dalle prestazioni mirabolanti; una ridondanza di megapixel, un esubero di tecnologia per produrre, nella maggior parte dei casi, null’altro che ottime cartoline. Finchè era in auge il bianco e nero stampato in camera oscura questi eccellenti artigiani dell’immagine avevano adottato il sistema zonale a loro vangelo, ed eletto Ansel Adams a loro profeta. L’avvento del digitale ha procurato loro qualche crisi esistenziale, ma poi hanno abbracciato in toto la nuova fede, sintetizzata nella formula “∞ megapixel + photoshop + dpi = bella fotografia”.
Certamente non ho nulla contro questo modo di concepire la fotografia, perché trattasi di un’esperienza che può essere vissuta a vari livelli, ognuno dei quali è meritevole del medesimo rispetto, ma alla domanda - che ancora oggi viene posta - se la fotografia possa essere considerata a pieno titolo tra le arti, posso rispondere “si”, ma non tutta la fotografia è arte, nemmeno quando produce belle immagini. Nutro una strana forma di ammirazione, un misto d’invidia e di nostalgia verso tutti quei fotoamatori che si riuniscono la domenica mattina, armati di tutto punto, in “spedizioni fotografiche” per catturare con l’obiettivo qualunque cosa che posi o si muova. Sono tecnicamente preparatissimi, sanno tutto riguardo a ciò che è sul mercato e su ciò che lo sarà, hanno occhio per scorgere il bello anche dove non c’è, e, cosa più importante, si divertono tantissimo.
Ma lasciatemi dire: l’arte è un’altra cosa.
“Arte” è in assoluto uno dei termini di cui più si abusa, e l’ambito della fotografia in questo non fa eccezione. Il cielo dell’“arte” si raggiunge solo, e non sempre, quando sensibilità, emozione, intelletto, intuizione e tecnica operano di concerto e ai livelli più elevati delle umane capacità.
Tutto il resto può avere tanto di buono, ma è altro. Questo in fotografia come in ogni altra attività che abbia a rivendicare pretese artistiche.
Nella civiltà multimediale, dove le immagini costituiscono la parte preponderante del comunicare, la mancanza di rigore intellettuale e di una sincera autocritica che investa l’intero circus dell’immagine - dal grande fotografo allo studioso, da chi come me scrive fino ad arrivare al fotoamatore del fotoclub di quartiere- rischia di rendere vano il lavoro dei vari Stieglitz, Strandt, Cavalli, Cartier-Bresson, Giacomelli e tantissimi altri. Il rischio concreto è che l’assioma “fotografia può essere arte” si tramuti in “fotografia è sempre e comunque arte”, e questo equivale, in una sorta di legge del contrappasso, all’avvalorare le invettive sulla fotografia di un secolo e mezzo fà.
Queste sono solo alcune delle considerazioni scaturite dalle domande che talvolta mi vengono poste, e dalle tante storie sulla fotografia che ho vissuto direttamente o di cui ho sentito parlare, e il discorso continuerà prossimamente toccando altri argomenti, così, tanto per farmi qualche nuovo nemico...
Una bella fotografia è bella anche se non è tecnicamente perfetta. Così come una bella donna è bella anche se non è perfetta. Anzi, sono proprio le imperfezioni a renderla particolare.
RispondiEliminaDopo aver detto due o tre frasi scontatissime e abbastanza condivisibili, ho scoperto anche io che la fotografia è prima di tutto uno stato dell'anima. Il mio modo di fotografare, la mia composizione in mente prima ancora che nel mirino sono tutti indizi di questo stato dell'animo. Se sto bene, faccio foto fantastiche. Se sono triste, anche. Cambiano le foto, ma rimangono sempre particolarissime... Tutto sta nell'emozione che si vuole trasmettere.
Grazie Libero di aver riportato questa splendida testimonianza di Massimo Renzi, anche perchè viveresenigallia.it lo leggo tutti i giorni, mentre 60019.it mi rimane un pò più "ostico".
RispondiEliminaCome mia testimonianza posso dirti che è una vita (diciamo più di dieci anni) che ho intenzione di iniziare a fotografare in maniera seria, anzi diciamo che ho intenzione di iniziare ad "immortalare" delle scene, dal mio punto di vista ovviamente. Ma per un motivo o per un altro non ce l'ho mai fatta. Forse per "paura" di non esserne all'altezza o per mancanza di idee: insomma sento di avere bisogno di fare delle belle (artistiche?) foto, ma non ho mai preso la cosa seriamente.
Chissà, forse sto ancora aspettando di trovare la MIA Comet.
Ciao!
Buon fine settimana a tutti!