Maurizio Pigozzo: chi è?
Mi definirei un "fotografo mancato" e potrei chiudere così l’argomento ma, rendendomi conto che la definizione data è troppo generica, cercherò di spiegarmi meglio. Molti anni fa dovetti scegliere tra un lavoro che mi dava una certa sicurezza economica (proseguire nell’attività aziendale di famiglia) o passare alla fotografia intesa come professione. Tra il certo e l’incerto, scelsi la prima soluzione e, quindi, la fotografia finì per restare solo un hobby che, come tutte le passioni, arrivò a toccare tutte le corde del mio essere. Nel 1984, a causa degli impegni lavorativi sempre più pressanti, dovetti abbandonare del tutto la fotografia e per diciannove anni fino al Maggio 2003 non presi più in mano né una macchina fotografica né riviste od altro legato all’immagine fotografica. Sette anni fa venne a trovarmi a casa un vecchio amico, a quel tempo Presidente dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Venezia e Direttore di due riviste legate all’Ordine stesso chiedendomi, ricevendo la mia disponibilità, l’uso di alcuni negativi per la pubblicazione su tali riviste a compendio di articoli in preparazione. Quando vidi in copertina una mia vecchia foto in biancoenero degli anni ‘70 mi commossi talmente che decisi di riaprire il discorso legato alla fotografia. Rimisi su una camera oscura e ricominciai a scattare immergendomi, nuovamente, in questo mondo fantastico. Come si sa, però, non tutte le ciambelle riescono con il buco, e trovai un’amara sorpresa: a causa dell’insorgere del digitale, i chimici per la stampa a colori non esistevano più. Fu un brutto colpo ma la decisione di ricominciare era stata presa. Ripresi ad operare, esclusivamente, con il vecchio e caro biancoenero lasciando da parte il digitale.
Quando hai iniziato a fotografare?
Posso dire che tutto nacque dalla visione di "Blow up", nel 1966, non tanto per la trama del capolavoro di Antonioni, quanto per la figura, dallo spirito anarcoide, del fotografo protagonista (Thomas). Il film fece nascere in me la sensazione che poteva bastare l’obiettivo di una macchina fotografica a rivelare aspetti della vita reale che l’occhio non era capace di cogliere. Erano gli anni del boom della fotografia e delle riviste fotografiche, molti giovani d’allora cominciarono ad appassionarsi all’arte fotografica cercando, con l’ausilio della pellicola, di svelare i piccoli misteri della loro vita quotidiana. Io, in particolare, fui attratto dalla luce rossa e dagli "odori" della camera oscura, di quel luogo così misterioso in cui nascevano, grazie alla combinazione di vari prodotti chimici, le MIE foto!!! Dopo aver iniziato a stampare in bianconero fui tentato dalla stampa a colori e, con la nascita del sistema Cibachrome, potei soddisfare tale desiderio. Mi ricordo lo stupore e l’emozione che provavo e provo ancora oggi, con la medesima intensità, ogni volta che l’immagine dopo un lungo travaglio, piano piano, emerge dal rivelatore... un’emozione così forte da non riuscire a descriverla con semplici parole.
Quale genere ti piace maggiormente fotografare?
All’inizio, nei primi anni ’70, privilegiavo la fotografia figurativa (paesaggi e ritratti); il colore, in questa tipologia d’immagini, mi aiutava molto rendendo più semplice la visualizzazione all’osservatore. La difficoltà maggiore era quella di riprodurre la realtà visiva che andavo a riprendere in modo tale da non farla risultare banale né tanto meno stucchevole. Cercavo di trovare inquadrature un po' diverse da quelle che, all’epoca, si vedevano in giro... in genere prediligevo colori saturi pur non disdegnando l’uso di tonalità dai toni più tenui dove ritenevo che ce ne fosse bisogno. Nel Maggio 2003, dopo la lunga pausa, dovetti, gioco forza, pensare a fotografare esclusivamente in biancoenero, mi ricordo quel primo rullino... era novembre, cercai di fissare sulla carta l’atmosfera da favola che si era creata nel parco di Villa Belvedere a Mirano... la nebbia che avvolgeva come in una spirale il Castelletto... quella domenica uggiosa con le foglie che, cadendo, andavano a formare un tappeto infinito... Sviluppai, subito, l’Ilford FP4 dandomi da fare a stampare i provini a contatto, dopo una veloce valutazione decisi di stampare quattro immagini che, anche se tecnicamente riuscite, mi lasciarono alquanto interdetto, in esse non c’era pathos, le trovavo melense, banali... quel filone "pastorale" non era in sintonia con il mio pensiero... Passarono alcune settimane... Un bel giorno acquistai un CD di Randy Weston, noto musicista jazz, intitolato "Khepera". Leggendo le note di copertina scoprii il significato di tale parola esotica: "Khepera", antico geroglifico egiziano significante "la trasformazione", trasformazione di tutte le cose. Fu un’illuminazione! Decisi di dare uno sguardo verso l’irreale, di riprendere, a modo mio, tutto ciò che si andava ponendo davanti all’obbiettivo, visualizzando e accostandomi al soggetto con occhio diverso, più selettivo. Gli oggetti perdevano la loro ragion d’essere per divenire intersezioni di linee con ombre che assumevano neri intensi, quasi catramosi. Scrutavo al loro interno, cercandone, dove era possibile, l’anima, l’origine, la materia, magari trasformando il banale nell’interessante, l’invisibile nel visibile. Il soggetto/oggetto cambiava pelle, diventava un polo d’attrazione per lo sguardo, spesso superficiale, dell’osservatore distratto. "Khepera", parola magica, è stata la molla che mi ha proiettato verso nuovi orizzonti e inusitate tendenze. Il "particolare", da quel momento, è diventato il mio soggetto preferito. [...]
Mi definirei un "fotografo mancato" e potrei chiudere così l’argomento ma, rendendomi conto che la definizione data è troppo generica, cercherò di spiegarmi meglio. Molti anni fa dovetti scegliere tra un lavoro che mi dava una certa sicurezza economica (proseguire nell’attività aziendale di famiglia) o passare alla fotografia intesa come professione. Tra il certo e l’incerto, scelsi la prima soluzione e, quindi, la fotografia finì per restare solo un hobby che, come tutte le passioni, arrivò a toccare tutte le corde del mio essere. Nel 1984, a causa degli impegni lavorativi sempre più pressanti, dovetti abbandonare del tutto la fotografia e per diciannove anni fino al Maggio 2003 non presi più in mano né una macchina fotografica né riviste od altro legato all’immagine fotografica. Sette anni fa venne a trovarmi a casa un vecchio amico, a quel tempo Presidente dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Venezia e Direttore di due riviste legate all’Ordine stesso chiedendomi, ricevendo la mia disponibilità, l’uso di alcuni negativi per la pubblicazione su tali riviste a compendio di articoli in preparazione. Quando vidi in copertina una mia vecchia foto in biancoenero degli anni ‘70 mi commossi talmente che decisi di riaprire il discorso legato alla fotografia. Rimisi su una camera oscura e ricominciai a scattare immergendomi, nuovamente, in questo mondo fantastico. Come si sa, però, non tutte le ciambelle riescono con il buco, e trovai un’amara sorpresa: a causa dell’insorgere del digitale, i chimici per la stampa a colori non esistevano più. Fu un brutto colpo ma la decisione di ricominciare era stata presa. Ripresi ad operare, esclusivamente, con il vecchio e caro biancoenero lasciando da parte il digitale.
Quando hai iniziato a fotografare?
Posso dire che tutto nacque dalla visione di "Blow up", nel 1966, non tanto per la trama del capolavoro di Antonioni, quanto per la figura, dallo spirito anarcoide, del fotografo protagonista (Thomas). Il film fece nascere in me la sensazione che poteva bastare l’obiettivo di una macchina fotografica a rivelare aspetti della vita reale che l’occhio non era capace di cogliere. Erano gli anni del boom della fotografia e delle riviste fotografiche, molti giovani d’allora cominciarono ad appassionarsi all’arte fotografica cercando, con l’ausilio della pellicola, di svelare i piccoli misteri della loro vita quotidiana. Io, in particolare, fui attratto dalla luce rossa e dagli "odori" della camera oscura, di quel luogo così misterioso in cui nascevano, grazie alla combinazione di vari prodotti chimici, le MIE foto!!! Dopo aver iniziato a stampare in bianconero fui tentato dalla stampa a colori e, con la nascita del sistema Cibachrome, potei soddisfare tale desiderio. Mi ricordo lo stupore e l’emozione che provavo e provo ancora oggi, con la medesima intensità, ogni volta che l’immagine dopo un lungo travaglio, piano piano, emerge dal rivelatore... un’emozione così forte da non riuscire a descriverla con semplici parole.
Quale genere ti piace maggiormente fotografare?
All’inizio, nei primi anni ’70, privilegiavo la fotografia figurativa (paesaggi e ritratti); il colore, in questa tipologia d’immagini, mi aiutava molto rendendo più semplice la visualizzazione all’osservatore. La difficoltà maggiore era quella di riprodurre la realtà visiva che andavo a riprendere in modo tale da non farla risultare banale né tanto meno stucchevole. Cercavo di trovare inquadrature un po' diverse da quelle che, all’epoca, si vedevano in giro... in genere prediligevo colori saturi pur non disdegnando l’uso di tonalità dai toni più tenui dove ritenevo che ce ne fosse bisogno. Nel Maggio 2003, dopo la lunga pausa, dovetti, gioco forza, pensare a fotografare esclusivamente in biancoenero, mi ricordo quel primo rullino... era novembre, cercai di fissare sulla carta l’atmosfera da favola che si era creata nel parco di Villa Belvedere a Mirano... la nebbia che avvolgeva come in una spirale il Castelletto... quella domenica uggiosa con le foglie che, cadendo, andavano a formare un tappeto infinito... Sviluppai, subito, l’Ilford FP4 dandomi da fare a stampare i provini a contatto, dopo una veloce valutazione decisi di stampare quattro immagini che, anche se tecnicamente riuscite, mi lasciarono alquanto interdetto, in esse non c’era pathos, le trovavo melense, banali... quel filone "pastorale" non era in sintonia con il mio pensiero... Passarono alcune settimane... Un bel giorno acquistai un CD di Randy Weston, noto musicista jazz, intitolato "Khepera". Leggendo le note di copertina scoprii il significato di tale parola esotica: "Khepera", antico geroglifico egiziano significante "la trasformazione", trasformazione di tutte le cose. Fu un’illuminazione! Decisi di dare uno sguardo verso l’irreale, di riprendere, a modo mio, tutto ciò che si andava ponendo davanti all’obbiettivo, visualizzando e accostandomi al soggetto con occhio diverso, più selettivo. Gli oggetti perdevano la loro ragion d’essere per divenire intersezioni di linee con ombre che assumevano neri intensi, quasi catramosi. Scrutavo al loro interno, cercandone, dove era possibile, l’anima, l’origine, la materia, magari trasformando il banale nell’interessante, l’invisibile nel visibile. Il soggetto/oggetto cambiava pelle, diventava un polo d’attrazione per lo sguardo, spesso superficiale, dell’osservatore distratto. "Khepera", parola magica, è stata la molla che mi ha proiettato verso nuovi orizzonti e inusitate tendenze. Il "particolare", da quel momento, è diventato il mio soggetto preferito. [...]
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