(testo raccolto da Alessandra Mauro a Senigallia il 30 Ottobre 2000, tratto dall’introduzione al catalogo "Mario Giacomelli", a cura di Germano Celant, Ed. Photology-Logos).
"La fortuna è di esser nati poveri. Mio padre è morto quando avevo nove anni, io ero il più grande dei miei fratelli e mia madre voleva che studiassi. Ho provato l'avviamento; il primo anno sono riuscito a farlo ma il secondo... E' che a casa non c'era molto da mangiare e io non avevo mai avuto un giocattolo. Tutti, quando sei povero, ti guardano dall'alto in basso e mia madre ha dovuto cercare lavoro all'ospizio di vecchi. A quel tempo non esistevano le lavatrici e lei lavava i panni per loro mentre io l'accompagnavo. Eravamo veramente molto poveri. (...)
Poi a tredici anni son voluto diventare tipografo. Passavo di fronte alle vetrine di una tipografia e vedevo quelle composizioni - i caratteri al rovescio, quelli più grandi, gli scacchi... e mi affascinavano. Fare il tipografo è veramente il mestiere più bello del mondo e ora per questi mestieri non c'è più spazio. Ho cominciato a vedere le macchie sul muro, i fili di ferro. Sono meravigliosi. Tutto è bello. Mi sono messo a fotografare ma le prime foto le ho buttate, a volte insieme ai negativi. Il bianco, il nero, il mosso: sono tecniche che richiedono molta precisione e quando non si è convinti del risultato, meglio buttare.
Così poi ho fatto l'ospizio. Ci sono andato tre anni senza macchina fotografica. Quando fotografavo pensavo a quello che si dice su Dio: che è buono, che non si muove foglia che lui non voglia... ma quello che ho visto, nell'ospizio... Sembra che le foto possano essere indifferentemente buone o cattive e che tutto sia un po' affidato al caso, invece non è così. A volte nascono dal niente o dal tutto che è la stessa cosa. Io cerco di fotografare i pensieri. L'oggetto mi è utile per trasmettere quello che vuole dire. Niente viene a caso, il bianco, il nero. Come nella famosa foto di Scanno: la figura nera aspetta il bianco. (...)
Dopo l'ospizio ho realizzato Scanno, la Puglia e riflettevo sempre su quello che facevo, su quel che avevo fatto. Un anno dopo l'ospizio ho fatto Lourdes. (...) Era una situazione da star male, non c'era niente da fare. (...) C'era un bambino con gli occhi scavati, le gambe intrecciate tra loro... gridava come un gorilla, i genitori spingevano la carrozzella. Io mi vergognavo, come si faceva a fotografare così? E dicevo tra me e me: "Ma come, non hai avuto paura dell'ospizio, ora?". Ma quelli dell'ospizio avevano vissuto, avevano ottanta, novanta, novantacinque anni... questi sono giovani, bambini. (...)
Certo, esistono situazioni dure da sopportare. Credo che se dovessi morire e scoprire che di là non c'è niente, mi incazzerei tanto da tornare sulla terra e sfasciare tutto. Non è che penso che ci sia una vita dopo la morte, me lo auguro soltanto. Perché se fosse vero, sarebbe un tradimento terribile da parte della Chiesa. E un tradimento così non si dovrebbe proprio fare. (...)
Per me non è importante la foto singola, ma la serie, il racconto. Ciò che conta è quel che nasce nella mia mente. Quasi sempre mi capita di vedere le foto prima di farle. Anche la serie dei pretini è nata dal mio interesse per la gente umile, povera. Loro erano tutti figli di contadini. Mi attirava quella situazione, mi attiravano le sottane lunghe. Così come, fotograficamente, il nero mi attira, il bianco mi attira. (...)
A volte la vita è così, c'è un caso cui neanche pensiamo. Per me, prima nascono le foto e poi, magari, trovo una poesia adatta. Quelle foto, ad esempio, all'inizio le chiamavo Pretini e basta. Dopo, disgraziatamente, ho messo il titolo della poesia di David Maria Turoldo "Io non ho mani che mi accarezzino il viso" e tutti ora le chiamano così. Ci sono tante cose da vedere quando si fa una foto. Io poi sono nato grafico, fotografo e grafico e questo mi ha aiutato molto. Non un grafico come quelli di oggi, con il computer. Io sono un grafico con la testa.
L'ultima foto che ho realizzato, quella che apre il libro, ha una storia strana. Ho sognato i cani e la testa di un uomo che appariva. Delle volte, faccio qualche foto così, con l'autoscatto, tanto per finire il rullino. Del resto siamo tutti su questa terra come teatro, e allora ho fatto uno scatto con dei piccioni di plastica e un dobermann. Quando sono stato male e sono stato operato l'ultima volta, non mi venivano in mente fotografie, ma mentre ero disteso al buio, vedevo tante cose strane, tante immagini che mi passavano negli occhi. Vedevo i piccioni. A me sono sempre piaciuti, fin da piccolo... Mi affascinano perché tornano sempre. E poi vedevo farfalle di tutti i colori - pensare che non ho mai fotografato le farfalle - e allungavo le mani come per prenderle. Piccioni, farfalle... Tutto nel grigio perché quando sono malato mi manca molto il sole e vedo tutto grigio, come la prima volta che sono stato operato. Quando sono uscito dall'ospedale e sono tornato a casa, son voluto andare nel mio studio per camminare in mezzo alle fotografie: per me non c'è miglior medicinale al mondo, niente che mi tiri su come le foto. E sono andato nel mio studio, ho visto tante immagini, molte le ho riconosciute, ma non le farfalle. Poi ho visto la foto, i piccioni, la faccia dell'uomo, i cani e ho pensato: Questo ricordo lo vorrei raccontare. Così è nato il titolo della fotografia. Non è che "voglio" raccontare il ricordo, ma lo "vorrei" raccontare, mi piacerebbe poterlo fare".
Mario Giacomelli
Fonte testo: www.nital.it/sguardi/9/giacomelli.php
Fonte foto: www.mariogiacomelli.it
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